L’impraticabile proposta di Aquileia (1596) e il minuscolo seminario di S. Pietro in Atrio (1598).
Sul finire del 1595 era giunto a Como il nuovo vescovo, Filippo Archinti. Proveniente dalla Curia romana, dove aveva svolto l’incarico di “referendario”, ossia di esaminatore delle suppliche rivolte al papa, era altresì nipote di un omonimo arcivescovo di Milano, nonché figlio di un pio e dotto giureconsulto della città ambrosiana. Se a tutto questo si aggiunge l’età ancora vigorosa (era a metà strada tra i quaranta e i cinquant’anni), si può ben pensare che da lui ci si aspettasse il deciso rilancio di una diocesi da tempo in difficoltà non minori, anzi, particolarmente gravi, rispetto alle altre Chiese d’Italia.
E, in effetti, all’Archinti riuscirà di compiere, nell’inverno 1614-1615, un’impresa non da poco qual era la visita pastorale alla Valtellina e alla Valchiavenna, occupate dai Grigioni riformati. Anche per quanto riguarda i problemi specifici del clero, egli diede subito mano, appena arrivato in diocesi, all’istituzione di una “prebenda” presso la Cattedrale per il mantenimento di un teologo che provvedesse a quello che oggi chiameremmo “formazione permanente” del clero mentre, con un’accurata ordinanza, regolamentò le modalità di ammissione agli ordini sacri.
La situazione, d’altra parte, era a dir poco drammatica. Soprattutto se si pensa alle due grandi valli alpine dove spesso, come scriveva, allarmato, a Roma lo stesso vescovo “i parrocchiani, non trovando preti idonei, accolgono sacerdoti transfughi da altre parti d’Italia (perché inquisiti per eresia) o religiosi apostati, pur di avere da essi l’amministrazione dei Sacramenti”.
E il Seminario? Le difficoltà che avevano impedito ai suoi illustri predecessori di avviare questa salutare istituzione angustiarono ancor più dolorosamente l’Archinti, uomo di diritto, così ossequiente verso la Sede romana e, ancor più, fervido ammiratore del Borromeo, in onore del quale farà costruire, a Cantù, la prima chiesa dedicata al santo fondatore dei seminari milanesi. E che amarezza sentirsi rispondere da Roma – dove aveva inviato la propria triennale relazione, nel 1596, dichiarando il “nulla di fatto” per il Seminario – che i decreti del Concilio andavano osservati “ad unguem”!
Una proposta utile, per trarre dagli impicci i vescovi (più d’uno!) in difficoltà come l’Archinti, era venuta dal patriarca di Aquileia, Francesco Barbaro. Como era suffraganea di quella sede fin dal VII secolo e pertanto anche il milanese Archinti dovette recarsi colà per partecipare al primo sinodo provinciale celebrato nel 1596. Fu proprio in tale occasione che, riprendendo una disposizione di Trento, si avanzò la proposta di un seminario interdiocesano, da realizzarsi “non lontano dal seminario di Aquileja”, esso pure, peraltro, in via di realizzazione. Anche soltanto la lontananza può spiegare agevolmente la dissociazione di Como dal progetto.
Prima però di allontanarci, anche noi, dall’insigne aula sinodale, ci interessa annotare le caratteristiche che vengono prescritte per gli erigendi seminari. “Due sono le attività permanenti per l’educazione dei chierici. L’una è la formazione alla pietà, alla religione, alla devozione, ed è questo il fondamento solidissimo di tutto”. Messa quotidiana, confessione mensile, comunione a giudizio del confessore. L’altra è la preparazione dottrinale che comprende innanzitutto “studi di grammatica, canto, computo ecclesiastico”; quindi gli studi più propriamente teologici, condotti “su la sacra Scrittura, gli scrittori ecclesiastici, le omelie dei santi”; infine l’apprendimento delle concrete attitudini parrocchiali: “le formule dell’amministrazione dei sacramenti, soprattutto della confessione, dei riti e delle cerimonie”. Non è poco, anche perché occorre – per garantire, in particolare, la formazione culturale – fornirsi di insegnanti preparati, e al riguardo si raccomanda con forza che i vescovi assumano per tali compiti solo persone insignite di gradi accademici: “dottori, maestri o licenziati nella sacra pagina o in diritto canonico”. A queste due direttive fondamentali – riprese alla lettera dai decreti tridentini – si aggiunge, a completare quella che diventerà la classica terna seminariale, la disciplina: “i vescovi pongano grande attenzione affinché non sia concesso ai giovani che vengono educati in seminario, di allontanarsi dalla disciplina, né possano andarsene in giro liberamente, senza precettore o custode, né abbiano a mischiarsi con gli altri giovani. Abbiano la loro ricreazione, conformemente all’età, dopo lo studio e il compimento dei loro doveri, ma non siano loro concesse troppe larghezze”.
Un progetto di seminario già preciso, che sopravviverà nei secoli, ma non può sfuggire altresì una qualche “riduzione” operata rispetto ad un’idea di prete ben più completa, quale appare dalla splendida definizione che, riferendosi in particolare i parroci, ne dava il dettato di Trento: il pastore d’anime e colui che “conosce le sue pecore; offre per essere il Sacrificio; le pasce con la predicazione della divina parola, con l’amministrazione dei sacramenti e con l’esempio delle buone opere; si prende cura come un padre dei poveri di tutti i miserabili”. Da questo ampio progetto conciliare sembra ci si riduca, all’attuazione pratica, all’immagine di un sacerdote disciplinato e pio, buon esecutore di riti, diligente amministratore di sacramenti e benefici.
Tornato dal vasto mare d’Aquileia al suo piccolo lago tra i monti, Filippo Archinti, due anni dopo, aprì un seminario. Nel cuore della città murata, non lontano dalla cattedrale, come Aquileia, sulla scorta di Trento, raccomandava. Nei pressi della più nota basilica di S. Fedele c’è una piccola chiesa, detta di S. Pietro in Atrio, dove più tardi sarà collocata la… (non è un gioco di parole!) Pretura. Qui nei locali annessi alla chiesa già sede di confratelli nonché, per tre anni, di Carmelitani Scalzi, sorse il secondo, piccolo, seminario comense.
Lasciamo la parola al vescovo mentre ne dà notizia, con trepidazione, a Roma, nella relazione del 1600: “nel modo migliore che ho potuto, ho aperto un seminario assegnandovi la chiesa di san Pietro in città e la casa ad essa attigua. Vi sono raccolti dodici chierici, i quali portano la veste violacea”. Era l’uso delle scuole gesuitiche e, infatti, questo drappello di chierici frequentava il vicino istituto dei Gesuiti, presso la chiesa di S. Amanzio, oggi “del Gesù”. All’insegnamento delle lettere, qui impartito, era stata affiancata, per iniziativa del vescovo, una disciplina specifica: “ho deputato un maestro che li istruisca nel canto”. Completava il programma di formazione il tirocinio pratico del servizio in Cattedrale, “tutte le feste”.
Era un piccolo passo, avrà breve durata. Modesto, per quanto nobile e simbolico, il numero di dodici chierici. Ancor più ridotte apparivano le prospettive di formazione, anche rispetto alle direttive di Aquileia.
Inesorabile fatica del concreto o prevalente salvaguardia delle forme?
mons. Saverio Xeres