La difficile attuazione delle intenzioni migliori

Tra grandi difficoltà nasce e, subito, muore il primo, piccolo, Seminario fondato dal vescovo Volpi (1573)

Bisogna pur rendersi conto: il Seminario, questa istituzione ritenuta, giustamente, tanto vitale per una diocesi, non ha che quattro secoli di vita. Sulla carta. Nella nostra realtà locale – ma si tratta di un caso abbastanza comune – il Seminario non arriva ai duecento anni di vita, se per esso intendiamo un’istituzione stabile e organica per la formazione spirituale e culturale dei nuovi preti.

L’idea scaturì dal travaglio del Concilio di Trento celebrato, a più riprese, in pieno XVI secolo, ma per l’attuazione concreta di questa iniziativa, così meritevole da bastare, essa sola, a far la gloria dell’assemblea tridentina, tante e tali furono le difficoltà che occorsero tempi lunghi e ripetuti tentativi.

Ci si chiederà, forse, come si era provveduto, nei quindici precedenti secoli di vita cristiana, a formare i pastori d’anime, che pure non mancarono. Una risposta completa chiamerebbe a rassegna molti diversi ambienti e personaggi: dal pievano che si allevava in casa qualche giovane collaboratore, fornendogli in proprio i necessari “rudimenti”, alle chiese cattedrali dove esisteva, solitamente, una qualche scuola, allo straordinario contributo offerto dai monasteri e, in seguito, dai conventi mendicanti.

Sta di fatto che, di fronte alle drammatiche situazioni, venute improvvisamente in piena luce dopo la frattura protestante, ma sviluppatesi durante un lungo periodo di decadenza della Chiesa medioevale, occorreva, in questo come in altri campi della vita ecclesiale, una azione di rinnovamento organica ed efficiente, saldamente ancorata alla figura del vescovo diocesano, punto di riferimento essenziale per la realizzazione di una Chiesa fortemente strutturata e accentrata, mediante la rete delle Chiese locali, alla sede romana.

Tralasciando di rintracciare le altre modalità di formazione del clero – pur sopravvissute a lungo – parleremo qui del Seminario come istituzione propria, e di questa ripercorreremo le vicende storiche. Senza fermarci, però, ai soli aspetti esteriori, come i vari edifici che, via via, ospitarono il “vivaio” dei preti comensi: cercando, piuttosto, di cogliere gli aspetti più umani di queste vicende, le problematiche interne, le preoccupazioni educative, le difficoltà e le speranze dei protagonisti, possibilmente anche di quelli umili e sconosciuti. A loro, pertanto – quando i documenti lo consentiranno – lasceremo volentieri il compito di narrarci la faticosa avventura di tradurre in realtà una riforma vitale.

«Ci meraviglia assai – comincia così, con un garbato rimprovero, la storia dei nostri Seminari – sentire che la tua fraternità non ha ancora istituito in questa città un Seminario conforme ai decreti del sacro Concilio di Trento».

È il papa in persona, Pio V, che si rivolge al vescovo di Como sollecitandolo a porre mano ad un’opera così necessaria “in qualsiasi altro luogo”, ma soprattutto per le zone montane, Valtellina e Valchiavenna, passate sotto il dominio dei Grigioni e pullulanti di eretici: «Fa in modo – raccomanda il papa sognando già il Seminario in atto – di accogliervi i giovani della Valtellina e Valchiavenna, i quali […] istruiti nella Sacra Scrittura e nella dottrina e nei precetti della Chiesa cattolica, possano poi tornare tra i loro convalligiani per confermarli nella fede, non solo, ma anche per ricondurre le pecore erranti all’ovile del Signore, con la parola e con l’esempio».

Correva l’anno 1567, e si era di aprile. Ma ben più lenta della più tarda primavera doveva mostrarsi l’auspicata fioritura dei Seminari. Solo sei anni dopo questo autorevolissimo monito, e a dieci anni esatti dalla chiusura del Concilio, mons. Giovanni Antonio Volpi, Vescovo di Como, poté aprire un benché piccolo Seminario. Si vuole che l’anno fosse il 1573 e il luogo nei pressi del Duomo – è il vescovo Rovelli, un secolo e mezzo dopo, a informarcene – ma niente di più possiamo dire: mancano più ampie testimonianze. Quel che è certo è che si trattò di un fragile germoglio. Già nel ’78, cinque anni dopo, il piccolo Seminario non esisteva più. Un altro rimbrotto, ahimè, attendeva il vescovo Volpi. A indirizzarglielo, questa volta senza risparmio di inchiostro, fu il visitatore apostolico inviato da Roma, mons. Giovanni Francesco Bonomi. E di nuovo, a caratterizzare la musica, è una tonalità di meraviglia: «se altre chiese cattedrali d’Italia, che hanno una rendita, non dico non superiore, ma di gran lunga più tenue, e che son altrettanto prestigiose per antichità e per molti altri aspetti, si sono fornite di un Seminario, non può esserne priva la Chiesa di Como che per antichità e per molte altre glorie eccelle e che possiede un reddito né esiguo né disprezzabile!».

Belle parole, indubbiamente, e in un eccellente latino, ma la realtà era problematica. Se non era riuscito ad aprire stabilmente il Seminario un vescovo intenzionato al rinnovamento e capace come il Volpi, e se nulla potrà fare, in questo campo, neppure il suo successore, quel Feliciano Ninguarda che pure era stato un realizzatore di primo piano della controriforma in Austria e in Germania, qualche buon motivo doveva pur esserci.

Il Concilio di Trento, nell’istituire i Seminari, aveva disposto che, per il loro sostentamento, fosse imposta una tassa su tutti i benefici ecclesiastici, nonché sulle case religiose e sulle confraternite presenti in diocesi. La norma tridentina diceva tutta l’importanza che il Concilio annetteva al Seminario, ma andava a cadere in un ambito, quello dei beni ecclesiastici, proprio tra i più bisognosi di riforma perché maggiormente popolato di abusi. In particolare, per la nostra diocesi, se c’era da mettere il cuore in pace quanto alla possibilità di raccogliere fondi nei vasti territori soggetti ai Grigioni (che avrebbero piuttosto sviato l’iniziativa – spiegava il Ninguarda nella relazione per la Visita ad Limina del 1593 – «a loro uso, imponendo una simile tassazione per il Seminario degli eretici la cui fondazione era stata tentata»), non si poteva, di conseguenza, evitare la resistenza a contribuire della restante parte della diocesi che si trovava a doversi accollare tutto l’onere del mantenimento della nuova istituzione. Senza dimenticare, infine, che una buona parte dei benefici era ancora in mano a diversi dignitari della Curia romana, non così pronti al fare essi quanto al predicare ad altri.

Insomma, e siamo ormai alla fine del secolo, a Como non si trova «alcuna traccia» – è ancora il Ninguarda che scrive, nel 1593, a Roma – di Seminario: «benché siano stati gettati alcuni inizi, essi si sono completamente estinti».

Se ottima era l’idea del Seminario, lanciata da Trento, significativo appariva, alla luce degli anni seguiti, anche il nome scelto.

Su di un suolo ancora duro a rinnovarsi, in un terreno infestato da spinosi interessi in conflitto, prima che qualche germoglio potesse stabilmente attecchire, quanto ancora restava da… seminare!

mons. Saverio Xeres