Spirito e norme del primo regolamento (1633).
Rassegnati, per il momento, all’insoddisfacente (per quanto brillante) soluzione data dal vescovo Carafino, nel 1629, all’ormai cronico problema del Seminario diocesano, lasciamo perdere le discussioni, ed entriamo a osservare la vita di quel drappello di collegiali del Gallio, già destinati preti.
Lo possiamo fare grazie ad un documento prezioso, solo parzialmente trascritto dallo Zonta nella sua “Storia del Collegio Gallio”. Leggendolo nel manoscritto allegato agli Atti della Visita compiuta nel collegio dal vescovo Carafino nell’anno 1633, siamo condotti, nella lenta fatica del decifrare i tratti di una cattiva grafia, come al cospetto di un altro mondo, che traspare appena, da quelle vecchie carte, come da una parte all’altra del foglio il corrosivo inchiostro con cui furono vergate.
A gara, nel sorgere, con la luce del mattino, i chierici abbandonano le “lettiere“, fornite di materasso e “pagliericcio trapuntato“, allineate nel dormitorio. I primissimi gesti della giornata sono accompagnati subito dall’orazione: uno dei giovani, ad alta voce, legge preghiere da un’apposita “tavoletta“, tutti rispondono. Dopo la Messa, il mattino è dedicato alla scuola. Quindi, dopo il pranzo, un po’ di ricreazione. Soltanto tre quarti d’ora, ma è consentito “il gioco della palla” e quello “del correre“, “servando però in tutto la modestia“. A nessuno, neppure d’estate, “sia lecito di cavare la veste“. Altri occupano il tempo di riposo “in raggionamenti honesti” evitando, naturalmente, “parole ingiuriose et simili“. Poi di nuovo allo studio, fin verso sera, quando ci si raduna per recitare l’“Uffitio della Vergine”, al quale si fa seguire “un pochetto d’oratione mentale: prostrati in terra con humile sentimento di se stessi, applicheranno il pensiero a quei punti che da meditare saranno proposti“. È ormai il tempo del desinare, dopo il quale, passata un’altra oretta di ricreazione, “ognuno senza strepito si ritirerà, l’estate in chiesa, l’inverno in dormitorio dove, piegate le ginocchia in terra, farà un poco d’esame di coscienza“. Quindi i copriletti, tutti ugualmente verdi, dei letti allineati, sono di nuovo ripiegati, ed è signora la notte, ed il riposo.
Una giornata fra tante. Fosse di giovedì, sarebbe vacanza – salvo due ore il mattino, “insegnandosi la dottrina christiana con la dichiaratione del Catechismo ad Parochos” – e si uscirebbe, nel pomeriggio, per il passeggio: in fila “a due a due, con l’assistenza del Prefetto“. Durante la camminata “a niuno sia concesso fermarsi in quelle strade e luoghi separato dall’altri, ma vadano tutti insieme, né comprino cosa alcuna senza licenza“. Nel dì di festa, invece, c’è il Duomo ad attendere i chierici, per le funzioni solenni.
Al di là del suo ordinamento esteriore, invita a scoprire, questa antica regola, le proprie precise finalità e il proprio spirito profondo.
Si tratta di formare dei buoni preti, questo lo scopo. Due – si avverte nel proemio, in piena consonanza con i più famosi regolamenti borromei – sono “quelle cose che tra l’altro devono principalmente risplendere in quelli che, cavati dalla feccia de popoli sono al ministero del sagro altare eletti: la bontà della vita e la dottrina“.
Di gran lunga più importante risulta, con evidenza, la prima delle due prerogative richieste, per dar fondamento alla quale non c’è che la “devozione“: “Non v’è cosa in tutta la mole della fabbrica spirituale che bene cominci se non dalla divotione, e qualunque edifitio che dentro il nostro cuore s’inalza, facilmente cade a terra se non s’appoggia alla pietà dell’animo“.
Di qui, l’intensa vita di preghiera che contraddistingue la giornata dei chierici, col penetrare dell’orazione, come linfa nei capillari di ogni angolo e momento, così com’era l’ideale del tempo – quell’assieparsi di luoghi di culto nelle città e tra le campagne, e il misurare la giornata ed il lavoro al ritmo delle frequenti devozioni – e nell’aspirazione di sempre: la vita come continua preghiera.
Pertanto, come gli occhi si spalancano alla luce del mattino, vanno subito aperti anche “quelli della mente“, facendosi subito il segno della croce. E mentre si ricopre il corpo con gli abiti, non si trascurerà di “rivestire interiormente l’animo con l’orationi“. Si pregherà, a scuola, dove “in luogho decente e chiaro si ponghi un’immagine della Beata Vergine od altro Santo avanti la quale, nell’entrare et uscire delli Padri Maestri, inginocchiati li Chierici reciteranno l’oratione composta da S. Tommaso d’Aquino, alle quali immagini tutti li sabati accenderanno li Scholari a sue spese una lampada“. Si mediterà durante i pasti, ascoltando una lettura della Bibbia o della vita del santo “corrente”. Dopo il pranzo – d’estate anche dopo cena – i chierici “anderanno a due a due dirittamente in choro et ivi con affettuosa oratione renderanno gratie a Dio, che compiacciuto si sia di pascerli, dicendo un Pater Noster et un’Ave Maria con voce bassa, et tutti insieme ad alta voce un De Profundis per l’anime de’ defunti“. Di nuovo l’orazione sul far della sera, in comune, quindi nella preghiera silenziosa si lascia spirare il giorno, dopo aver eccitato l’animo al pentimento, in un “rigoroso” esame di coscienza, “dicendo fra sè medesmi: ‘io sono reo di castigo meritevole, perché fui pigro nel levarmi, distratto nell’Uffitio et altre mie divotioni, rilassato ne costumi, trascurato nello studio, leggero nel ricrearmi; quando verrà mai quell’hora ch’io emendi me stesso, o mio Dio?“
Sempre, comunque, avranno cura, i chierici, di tener viva la preghiera interiore, al punto che – in qualunque momento – “chi li mira concepisca dentro di sé la divotione che interiormente devono nodrire [nutrire]”.
mons. Saverio Xeres