“Fuggano i chierici l’ozio e la pigrizia”

La generosa iniziativa e i saggi intenti del canonico Benzi (1646).

Ricorderanno i nostri lettori come, entrati di soppiatto, circa gli anni ’30 del Seicento, nel Collegio Gallio – quel gran palazzo adibito in parte a Seminario diocesano per l’energica iniziativa del vescovo Carafino – abbiamo potuto assistere a qualche squarcio di vita dei primi chierici comensi.

L’educazione degli aspiranti al sacerdozio era impostata, ricorderanno, su due nitide linee direttrici, la “bontà della vita” e la “dottrina“, le stesse indicate dal grande Concilio di Trento.

Ora, se più immediatamente attuabile era la prima direttiva – bastava avere qualche buon prete, o religioso, che si prendesse cura dei chierici “eccitandoli” alla virtù e alla preghiera, nonché vegliando con una certa severità sull’osservanza della disciplina – ben più difficile appariva il garantire una valida formazione dottrinale. È ben vero che, per la riforma del clero, era urgente ridare ai preti innanzitutto serietà di impegno e moralità di vita, ma certo si era consapevoli che alla decadenza diffusa non era estranea la troppa ignoranza, mentre la desolata situazione religiosa delle popolazioni, specie di quelle disperse tra le valli soggette ai protestanti, richiedeva pastori che allo zelo unissero una robusta dottrina.

Il Collegio Gallio poteva offrire un’ottima formazione umanistica; erano anche previste (a pagamento) lezioni di filosofia, ma – a parte qualche esercitazione pratica di eloquenza sacra – non vi si poteva trovare uno specifico insegnamento teologico. Per quanto il Carafino avesse voluto forzare la mano, il Gallio era rimasto pur sempre un buon collegio, e faticava a diventare un vero e proprio seminario.

Fu allora che la Provvidenza passò (può capitare) per le mani di un dotto canonico della Cattedrale.

Aveva un cognome di tutto rispetto, Benzi, mentre di nome faceva Giovanni Giacomo. In Duomo esercitava l’ufficio di Penitenziere, assunto nel 1608, alla soglia dei quarant’anni. Come richiedeva il delicato ufficio (saggezza minima di tempi non straordinari!) era insignito del grado di dottore in teologia, avendo studiato presso i Gesuiti di Milano, nel prestigioso collegio di Brera.

Alla sua morte, avvenuta nel 1646, il Benzi lasciò, per testamento, la propria casa paterna, a Porta Sala (attuale piazza Cacciatori delle Alpi) perché se ne facesse un Seminario, mentre le rendite dei suoi beni – aveva possedimenti, tra l’altro, a Lomazzo, Casnate, Brunate, Urio – sarebbero servite al mantenimento della struttura e dei chierici in essa accolti.

Diciamo che era un po’ una “virtù di famiglia”, per i Benzi, quella di dedicarsi a una beneficenza importante come quella culturale. Un parente di Gian Giacomo, Francesco, avrebbe lasciato di lì a poco la propria biblioteca e un capitale al Collegio dei Dottori, ampliandone il patrimonio librario e instituendovi una cattedra di Diritto.

Quella del canonico Benzi non era, però, soltanto una provvidenza culturale. Egli voleva istituire un vero e proprio Seminario per la Diocesi. Il suo testamento parla chiaro: “sotto niun pretesto non si possa accettare nel detto Seminario alcuno per convittore che non abbia la qualità de’ Seminaristi […] studiando […], vestendo l’abito talare, servendo alla Chiesa“. Il suo “fine principale“, dice in un altro passo del testamento il Benzi, era infatti quello di dare la possibilità a dei giovani di “ordinarsi agli Ordini Maggiori per servire a questa Diocesi“. Si noti: agli Ordini Maggiori. Perché sappiamo bene quanti, in quel tempo, si avviassero alla carriera ecclesiastica soltanto per procurarsi una buona posizione sociale e una discreta rendita economica, limitandosi di conseguenza a ricevere gli Ordini minori, i quali non comportavano, solitamente, alcun impegno pastorale.

Pertanto, nel Seminario Benzi saranno accettati solo i giovani (di almeno 18 anni) presentati dal proprio parroco il quale dovrà fornire attestazione scritta – e confermata dal Vicario Foraneo – delle buone virtù e della assidua pratica sacramentale dei candidati. Metà dei posti – la casa poteva accogliere, al massimo, una quarantina di persone – erano riservati a giovani della città, l’altra metà per i seminaristi provenienti dal resto della Diocesi.

Un Seminario, dunque, per formare dei pastori. E pastori preparati, colti. Ecco, allora, l’insistenza del Benzi sulla qualità e il rigore della formazione dottrinale. Lo stesso consiglio di amministrazione, preposto al nuovo ente, era costituito, oltre che da un canonico della Cattedrale e da un decurione della città, da un dottore in teologia. All’interno del Seminario, poi, furono istituite due cattedre di teologia che dureranno per qualche decennio, dopo di che si ricorrerà ai Gesuiti, presenti in città con il loro Collegio.

Gli alunni erano ammessi al Seminario solo dopo un “rigoroso esame” di ammissione, durante il quale, spiegando qualche capo del Concilio di Trento e dissertando su alcune questioni di filosofia, dovevano dimostrare di poter passare agli studi di teologia e di morale. Ogni anno, poi, prima delle vacanze estive, c’erano gli esami, per verificare il profitto nello studio. Una volta sola si ammetteva che uno studente potesse essere stato preda della negligenza: alla seconda, seguiva immediatamente l’espulsione. Un’espulsione che, tra l’altro, costava cara: dovendo l’alunno, in tal caso, “restituire al Seminario tutti gli alimenti che avrà ricevuto“. Servivano preti – eccome! – ma non per questo si accettava chiunque. Non che si facesse tanto questione di capacità intellettuali: ciò che proprio non si tollerava erano “l’ozio e la pigrizia“. 

Non a caso, a patrono particolare del nuovo Seminario, fu posto un santo quanto mai attivo e generoso: Filippo Neri. Un grande cuore di pastore, un fervido educatore di gioventù, che non aveva tuttavia dimenticato – per sé e per gli altri – l’insostituibile valore della formazione culturale, promuovendo frequentemente attività in tal senso nei suoi famosi “oratori”.

Al Benzi lo festeggiavano ogni anno, per imitarlo tutti i giorni.

Poiché anche lo studio, come il lavoro, necessita di strumenti, non lesinò, il canonico Benzi, nell’acquistare ottimi libri. Furono il primo nucleo della Biblioteca del Seminario, mentre il maggior titolo di vanto del buon canonico fu tramandato fino a noi con le note di possesso stilate sul retro delle copertine dei suoi libri: “Fundatoris Seminarii Bentij“.

Certo, lo studio non è tutto, per un prete, ma nel sottolinearne con forza l’urgenza e il rigore, con il mostrarne soprattutto il senso di doveroso impegno per chi ha da esser guida d’altri, ci lasciò, il canonico Benzi, oltre ai suoi libri ed ai suoi beni, la più preziosa eredità.

mons. Saverio Xeres