La trasformazione del Collegio Gallio in Seminario (1629).
Quell’“edificio elegante, poco lontano dalla città”, non poteva mancare di attirare l’attenzione del nuovo e giovane vescovo di Como, Lazaro Carafino, già segretario del suo predecessore sulla cattedra di Abbondio, il cardinale Scaglia. Sarebbe stato l’ideale sede del Seminario, questa benedetta istituzione sempre più sospirata: alle difficoltà concrete del primo post-concilio si era andato aggiungendo, con il passare del tempo, un progressivo calo di entusiasmo per le riforme tridentine.
Sta di fatto, però, che quell’edificio non era stato costruito per essere un Seminario. Il grande cardinale di origine comasca, Tolomeo Gallio, Segretario di Stato di papa Gregorio XIII, lo aveva fondato nel 1583 per l’educazione dei giovani, soprattutto dei più poveri: aveva considerato, infatti, il ricco cardinale, come “molti giovani nella città di Como, sua patria, e nella Diocesi, benché provvisti di ingegno, non potevano istruirsi nelle lettere, né apprendere le arti liberali o le altre arti, a motivo della povertà delle loro famiglie. Così accadeva che, non avendo nessuna prospettiva per il futuro, questi giovani passavano il tempo oziosamente, riuscendo inutili a sé e al prossimo e, peggio ancora, essendo privi di formazione, cadevano facilmente nei vizi“. La stessa congregazione religiosa invitata dal Gallio a reggere il Collegio, i Somaschi, indicava con chiarezza quali fossero le intenzioni del cardinale. Ben noto era, infatti, e proprio a Como, Girolamo Emiliani, loro fondatore, come “padre degli orfani”.
Era pur vero che il vescovo Ninguarda, fervido assertore della necessità dei Seminari, aveva ottenuto qualche posto, nel Collegio, per alcuni chierici della diocesi, ma questo modesto provvedimento – accettato dallo stesso Gallio, disponibile a ricevere in collegio fino a 8-10 chierici – non aveva, non dico risolto, ma neppure avviato a soluzione il problema.
Lazaro Carafino, discretamente navigato nel diritto e nella pratica curiale, non tardò a trovare un abile espediente. Il Collegio fondato dal Gallio era stato eretto con bolla papale, dunque era da ritenersi equiparato ai collegi pontifici. Ora, questi, nel 1625, con un decreto della neonata Congregazione per la propagazione della fede (“Propaganda Fide“) erano stati “convertiti”, praticamente, in Seminari. I giovani che vi entravano, infatti, dovevano impegnarsi con giuramento, ad assumere, a suo tempo, gli ordini sacri. “Prometto e giuro – dicevano – che abbraccerò lo stato ecclesiastico e, quando i superiori lo riterranno opportuno, riceverò gli Ordini sacri, compreso il presbiterato. Quindi […], senza porre indugi, ritornerò nella mia regione, dove assumerò il compito dell’amministrazione dei Sacramenti e della cura d’anime“.
Non avrebbe potuto valere questo, anche per il Collegio Gallio?
Detto fatto: il vescovo si interessò della questione presso la Curia romana, espose il caso e, nel 1629, ottenne quanto desiderato. Un decreto di Propaganda Fide del 1629 estese al Collegio Gallio i provvedimenti già emanati per i collegi pontifici: gli alunni – da riceversi non prima del quattordicesimo anno di età – “dovevano essere obbligati alla vita ecclesiastica“. Trionfante, il Carafino si presentò al Sinodo diocesano del 1633 snocciolando, un dietro l’altro, i decreti che autorizzavano la trasformazione del “Gallio” in Seminario. E, nel riportare, a stampa, la bolla di fondazione del Collegio Gallio, non mancò di far notare – con opportuna sottolineatura, volutamente aggiunta rispetto al testo originale – che il cardinale aveva sì voluto fondare un’istituzione per la gioventù, soprattutto povera, ma lo aveva fatto anche “sperando che a suo tempo possano essere introdotti nuovi operai nel campo del Signore“.
Anzi, onde assicurarsi meglio che nessuno approfittasse del Collegio solo per compiere i propri studi, andandosene via al momento di prendere gli ordini, monsignor Carafino fece aggiungere, al già citato giuramento, una dichiarazione scritta nella quale un garante per ogni alunno doveva impegnarsi “a rimborsare al Collegio quanto si sarà speso da esso Collegio per gli alimenti di quell’alunno […] che […] per suo difetto fosse cacciato dal Collegio, o […] fuggisse spontaneamente o, uscito dopo il compìto tempo, si trovasse aver deposto l’abito clericale“.
L’abile quanto autoritaria mossa del vescovo non mancò di suscitare polemiche. Ce ne rimane un’eco, passata ormai la metà del secolo, nelle parole amare del grande storico Tatti, prete del Gallio: “Nè Monsignor Volpi, nè Monsignor Ninguarda, finchè vissero, e ressero questa Chiesa di Como, applicarono l’animo ad ergere il Seminario, secondo ciò, che prescrive il Concilio di Trento; ma i Vescovi lor successori servendosi della congiuntura presente, anno operato presso la Corte di Roma, acciocchè il benefizio fatto dal Cardinale Gallio per sollievo de’ poveri, e principalmente degli Orfanelli, venisse ristretto ai soli Chierici“.
Da buon giurista, il vescovo Carafino aveva le spalle coperte da autorevoli permessi. Ma certo – se pur si comprende il suo desiderio di avviare a soluzione un problema bloccato da troppo tempo – rimane sul suo operato l’ombra di aver fatto un po’ pagare i ritardi e le inadempienze della diocesi a un’istituzione nata per la carità.
E non è bello.
mons. Saverio Xeres