La travagliata fondazione del Seminario di S. Caterina (1740).
Potrà sembrare tanto – e lo è di certo – un secolo quasi tondo che interponiamo, nel nostro racconto, tra il Seminario Benzi – istituzione limitata e di iniziativa privata, per quanto lodevolissima, sorto nel 1646 – e il primo vero Seminario di fondazione vescovile: quello di S. Caterina, legalmente eretto nell’anno 1740.
Ma così fu. Non che, nel frattempo, la questione non venisse “agitata”. L’insufficienza quantitativa del Benzi (all’interno del quale, alla fine del Seicento, troviamo una ventina di chierici, ai quali vanno aggiunti i 30, circa, dimoranti presso il Collegio Gallio) si accompagnava alla problematica qualità di un insegnamento teologico per nulla organico e continuativo, bensì affidato occasionalmente a qualche religioso presente in città, scovato tra i Gesuiti o i Domenicani.
Appariva, dunque, piuttosto evidente la necessità di un’istituzione stabile e di carattere diocesano, come, del resto, chiedevano i decreti del Concilio di Trento.
Motivo di ulteriore urgenza, per la Chiesa comense, era rappresentato dalle grandi difficoltà delle zone soggette ai Grigioni riformati: Valtellina, Chiavenna e Bormio. Pertanto, all’inizio del ‘700, ecco da Roma un nuovo monito al vescovo, Francesco Bonesana, perché provveda. Poté soltanto, il Bonesana, disporre un lascito nel suo testamento, affinché fossero istituite tre cattedre, di cui due di teologia morale, nel Collegio Gallio: ma, come osserva lo storico Rovelli, “fu più largo il suo cuore, che la sostanza“. Nobile il pensiero, insufficiente il denaro.
Mentre restava inerte la situazione, provvide la natura ad una scossa.
Scorreva a quel tempo, a cielo aperto, il torrente Cosia: aggirando la città, da nord a sud, volgeva quindi, dopo larga ansa, verso il lago, costeggiando il Borgo Vico, lungo il tracciato ora coperto dalla tangenziale.
Nell’anno 1737, il 23 di maggio “per le molte pioggie gonfiato il fiume Cosia […] entrò in molte case, chiese e campagne, gettò molte muraglie“. E avendo incontrato, lungo il suo corso impazzito, il monastero delle Agostiniane di S. Caterina, in Borgo Vico, violò – senza rispetto dei sacri canoni – la clausura, “gettando una muraglia della vigna, dove se ne entrò, ed una del giardino, dove se ne uscì per altre case, e dindi ritrovando il suo nido al lago“. Le trentadue monache, dopo aver trovato un rifugio di fortuna in una vicina casa, di proprietà dei Gesuiti, avrebbero voluto tornare al monastero dove si sarebbe potuto “con comodo riffare le muraglie, che con cento filippi e meno se lo faceva“, come perfino uno degli architetti della Fabbrica del Duomo riteneva.
Essendo il vescovo, Alberico Simonetta, già duramente provato nella salute (sarebbe morto neppure un anno dopo), la questione passò all’energico vicario generale, Giovanni Battista Stampa, il quale si impuntò. Con il pretesto (o tale ritenuto dalle monache) dell’insuperabile difficoltà a provvedere alle necessarie riparazioni del monastero, fece d’autorità trasferire tutte le monache in S. Orsola, allora monastero umiliato, quindi di altra regola, ossia benedettina. Pensasse già, lo Stampa, ad un possibile utilizzo del monastero sgomberato per altro scopo, lo si può anche pensare, ma senza il conforto dei documenti.
Lo scontento delle monache, comunque, fu tale che, nella primavera seguente, dodici di esse fecero ritorno, di propria iniziativa, al loro antico monastero, volendo fermamente in esso “vivere e morire“. Ecco però venire loro incontro, sulla porta, il vicario generale: “tutto adirato, con fiscale, notaro, birri, barisello, facchini e carri“, sequestrò all’istante tutti i mobili e le suppellettili del monastero, per poi portarli a S. Orsola, unica sede legittima, dal suo punto di vista, della comunità di S. Caterina, lasciando in tal modo le monache ribelli in uno stato di estrema povertà. Restassero pure a S. Caterina: affidando l’amministrazione del vecchio monastero ad un economo piuttosto tirchio, si disponeva, col tempo, a prenderle per fame.
Nell’autunno del 1739, finalmente, arrivò in diocesi il nuovo vescovo, Paolo Cernuschi. Ricevute le opportune facoltà dalla Curia romana, si dedicò subito alacremente alla spinosa questione di S. Caterina. Procedendo con l’antico ed abile sistema del “divide et impera”, dopo aver interpellato le monache ad una ad una, aggregò le più remissive definitivamente a S. Orsola, mentre incontrò le più tenaci (già ammorbidite dai lunghi mesi di penuria) sulla via di mezzo del trasferimento ad altri monasteri della città, ma della stessa regola agostiniana, ossia S. Marco in Borgovico, e S. Giuliano. Seppe, inoltre, favorire l’accoglienza da parte degli altri monasteri con i sempre graditi incentivi di natura economica: accompagnando ogni monaca con “quella dote, che si suole sborsare per le monache giovani, ed anche con qualche maggiore aumento”, nonostante fossero, la maggior parte, anziane. Anzi, l’età delle monache era un ulteriore vantaggio, giacché “si è già dato il caso, che per la morte di qualche monaca il respettivo monastero ha guadagnata la dote, e gli è cessato l’aggravio“.
A questo punto, non parendo buona cosa ridurre un monastero ad uso secolare, ecco spuntare (o giungere ad effetto?) l’idea di farne la sede del sospirato Seminario vescovile. Roma non avendo nulla da eccepire – approvando, anzi, “cum laude” l’abile soluzione del vescovo – nacque a Como, il primo Seminario vescovile, con tanto di rogito, datato 26 settembre 1740. Con tale atto, il vescovo Cernuschi “ad effetto che li suoi ecclesiastici possino col dovuto comodo applicarsi allo studio del Sacro Dogma, e ad altri a loro opportuni, per rendersi capaci de loro uffici e per resistere all’eresie […] ha eretto, ed erige in detto Monistero di Santa Cattarina il Seminario […] intitolando adesso per sempre il detto Monistero «il Seminario Vescovile di Santa Cattarina»“.
Di fronte alla nuova prospettiva che solennemente si apriva, parvero certo poca cosa le riparazioni murarie giudicate impossibili solo due anni prima. E tuttavia, per il nuovo Seminario fattosi strada, sull’onda di un torrente in piena, tra le rovine di un monastero di vecchie monache, i problemi economici costituiranno un continuo tormento. Distribuiti, infatti, i beni del già monastero tra le nuove diverse sedi delle religiose, al Seminario non restava altro che “il sito materiale, e la nuda fabbrica“.
mons. Saverio Xeres