Stendi il manto tutto santo sul tuo popolo fedel!
Forse per qualcuno è solamente una costante invernale (e per fortuna che accade ancora, così che per un altro anno il surriscaldamento globale non è eccessivo); per altri è quell’elemento che rende tangibile la “magia del Natale” (che poi, un giorno, ci spiegheranno anche in che cosa consista); per altri ancora è la prova provata che la scienza sta compiendo passi da gigante: l’aveva prevista da più di una settimana.
Ma forse per qualcuno – pochi per la verità – la candida coltre di neve che ieri ha coperto il nostro Seminario può non essere altro che un segno della premurosa maternità di Maria, datrice di manna celeste.
Ecco il contesto in cui anche questa sera ci siamo ritrovati per lodare il primo prodigio di Cristo con l’inno Akathistos. Come ogni poesia che meriti davvero questo nome, anche questo canto più lo si ascolta più parla, svelandoci e rivelandoci continuamente nuove sfaccettature della luce dell’Astro perenne. E forse, chi ieri con noi si era già soffermato sul mistero della grazia e della libertà, oggi ha colto un po’ di tutte quelle espressioni di giubilo che razionalisticamente paiono non farci tornare i conti.
È proprio su lei, vetta sublime a umano intelletto, paradossale partoriente del Paradosso, che vorremmo sostare un poco.
Ave, o Madre all’Agnello Pastore, abbiamo cantato. Non vi è madre se non rispetto al figlio, e viceversa. Quanto più amiamo veramente Maria tanto più la riconosciamo fragranza del crisma di Cristo, e pertanto – per rubare un pensiero a San Grignion de Montfort – quanto più ci avviciniamo a lei, tanto più ci troviamo al Dio irraggiungibile giunti.
Quasi un paradosso, ma è anche stando presso la Madre che congiunge opposte grandezze che impariamo a seguire Colui che era tutto qui in terra e di sé tutti i cieli riempiva.
Paradossale è anche – di conseguenza – ciò che abbiamo vissuto nella preghiera. Che cos’è la voce se non una flebile vibrazione dell’aria, della durata di un istante? Eppure assieme al fumo di suppliche incenso gradito ha la forza di elevare i nostri cuori e le nostre menti.
Anche attraverso forme inusuali che, al contempo spiegando e velando nuovamente, ci aprono orizzonti inesplorati e allargano i confini della nostra lode. È quello che abbiamo sperimentato col canto Bogoroditse Devo di Rachmaninov.
Pertanto, così come tutti i salmi “finiscono in gloria”, non si può che ringraziare – ancora una volta e ancora di più – tutti coloro che hanno reso possibile questo frammento dell’aurora di mistico giorno. Oltre al rettore don Alessandro e al vescovo Oscar (che, pur non potendo essere presente ci ha fatto pervenire la sua riflessione), il nostro grazie più profondo è per mons. Saverio Xeres che non soltanto ha accordato le nostre voci ma ha saputo lasciar impregnare la nostra fede e la nostra vita da ciò che cantavamo e contemplavamo.
Un grazie poi a Pietro e Alessio per il loro costante impegno e l’esemplare passione nel fare. Un grazie a Simone, nostro cerimoniere, per aver tenuto le fila del tutto.
Anche a tutti coloro che hanno pregato con noi e ci hanno permesso di essere comunità con loro, non può che andare un accorato ringraziamento.
E poi, ultimo solo nell’elenco, un grazie alle ragazze che hanno avuto il coraggio di imbarcarsi in questa bell’avventura. A loro, come semplice segno di gratitudine, è stato consegnato un piccolo fiore, con un biglietto.
È con la frase lì scritta che terminiamo l’intenso resoconto di queste due serate.
«L’attrattiva di una bellezza segue una traiettoria paradossale: quanto più è bella, tanto più rimanda ad altro. L’arte (pensiamo alla musica!), quanto più è grande, tanto più apre, non conclude, ma spalanca il desiderio, è segno di altro»
(L. Giussani, Il senso religioso, 160)