Esercizi Spirituali 2023

Suscitare il desiderio

L’ultima settimana di gennaio, appena terminati gli’esami del primo semestre accademico, la comunità del Seminario si è ritirata a Tavernerio per vivere, come ogni anno, gli esercizi spirituali.

Innanzitutto, chi magari segue più da vicino l’attività dei seminaristi, si chiederà come mai è stato scelto questo periodo anziché, come di consueto, l’inizio della Quaresima. Il motivo è presto detto: in quel periodo saremo in pellegrinaggio in Terra Santa. In più, però, c’è da dire che ciò è strettamente legato anche al tema degli esercizi: il predicatore, don Andrea Straffi (docente in seminario, direttore dell’ufficio diocesano per i beni culturali ecclesiastici e collaboratore nelle parrocchie di Casnate e Bernate) ha infatti elaborato un percorso sul tema del cammino.

Essendo impossibile ed anche forse inutile ripercorrere direttamente tutti i temi delle meditazioni di questi esercizi in questo poco spazio, vorrei evidenziare alcuni elementi di cui troppo spesso non si fa memoria, perché riguardano il fondamento del discorso di fede, e quindi, poiché non immediatamente visibili, così come di fronte ad un fiore non si considerano le radici della pianta, paiono scontati. Ma andiamo con ordine.

Innanzitutto, c’è da dire che non è facile dare una definizione di ciò che s’intende per esercizi spirituali senza essere eccessivamente prolissi o riduttivi. Ma S. Giovanni Paolo II, all’Angelus del 16 dicembre 1989, ben sintetizzava dicendo che “gli esercizi sono un insieme di meditazioni e di preghiere nellatmosfera di raccoglimento e di silenzio, e soprattutto una particolare spinta interiore suscitata dallo Spirito Santo per aprire ampi spazi dellanima allazione della grazia”. Detto ciò, tuttavia, andrei ancora più alla radice. Insisterei semplicemente sul termine esercizi.

Da buoni figli del culto del fisico della nostra epoca, siamo subito tentati a cogliere un rimando diretto all’attività sportiva. Ma forse risalire all’etimologia permette di portare a galla alcune sfumature nascoste, che però sono estremamente interessanti. L’origine del termine, infatti, si ha nel latino exercitium, che a sua volta nasce dalla composizione della preposizione ex (fuori) e del verbo arceo, che significa innanzitutto allontanare, ma non solo: anticamente aveva anche il significato di infastidire, e, nel suo derivato exercere, abbiamo praticare un’attività, lavorare. Parrebbero definizioni slegate tra loro, ma sono strettamente unite. Anche qui, procediamo con ordine. Allontanare, dicevamo: gli esercizi spirituali sono un allontanamento, un ritiro, appunto. Così come il pellegrinaggio è un allontanarsi, un partire: in questo senso, gli esercizi sono un cammino. Ma non solo: anche la nostra fede è un cammino. Un allontanarsi in cerca di qualcosa. Qualcosa che manca: è l’essere mossi da un desiderio, che etimologicamente significa mancanza delle stelle. Questa mancanza è di fondamentale importanza: nel pellegrino ed in chi crede c’è una sete che trova pace solo in Dio, una sete di pace e di verità. E qui veniamo al secondo significato di arceo, quello più antico e che fa sintesi tra tutti: infastidire. L’allontanarsi certamente genera fastidio: fastidio di lasciare tutto verso la meta del pellegrinaggio, fastidio di lasciare la casa per camminare su strade rischiose. Ma questo fastidio è evidentemente più debole di quello esistenziale e radicale di chi non trova pace e parte per cercarla, di chi non trova il senso della realtà e s’incammina per abbeverarsi alla verità. Da questo allontanarsi, questo uscir di casa, certamente scomodo ma necessario, abbiamo il terzo senso, il lavorare, il praticare un’attività. Forse questo significato parrebbe essere meno utile al nostro discorso, ma non è affatto così: esercizio spirituale in questo senso è esercitare l’attività propria dei battezzati: l’evangelizzazione. Ma perché si possa evangelizzare, così come il pellegrino brama la meta del suo viaggio per trovare la pace, è necessario che ci sia sete di salvezza, fame di verità: è necessaria la mancanza. E qui giungiamo a ciò che spesso si dimentica: chiarissimo in tal senso è un passo del vangelo apocrifo di Tommaso (citato dal predicatore nei nostri esercizi): “Gesù disse: «Ho preso il mio posto nel mondo, e sono apparso loro in carne ed ossa. Li ho trovati tutti ubriachi, e nessuno assetato»”. È evidente che il rischio, oggi come allora, è quello che Cristo trovi tutti satolli e ubriachi, tutti ripieni di cose del mondo e senza alcun desiderio, senza alcun vuoto da colmare camminando con Lui, verso di Lui. E la migliore predicazione, la migliore evangelizzazione che tuttavia non tenga conto di questo e non arda in modo tale da suscitare il desiderio non è differente che dar da bere all’ubriaco, non è altro che preparare cibo per il sazio. L’autoreferenzialità nella Chiesa è uno dei drammi del nostro tempo, che, per certi aspetti, ci portiamo dietro fin da prima del Concilio Vaticano II, benché esso, mi pare,  ben intendesse eliminarla. Da una parte, infatti, capita che non ci sia nessuna volontà ad approfondire, a chiarire, a fondare il discorso di fede, a dare una risposta alle domande di senso che caratterizzano l’uomo. Dall’altra, ed è il rovescio della medaglia, si presume che il nostro interlocutore (cioè, colui che fa delle domande) sia ignorante, e che basti imbonirlo con una delle solite banalità. Già negli anni ’70, Joseph Ratzinger diceva che “la crisi della predicazione cristiana, che da un secolo sperimentiamo in misura crescente, dipende in non piccola parte dal fatto che le risposte cristiane trascurano gli interrogativi dell’uomo”. Mentre già durante gli esercizi meditavo su queste cose e mi chiedevo se non fossero un po’ (troppo) impietose (e, se lo sono, domando scusa), proprio lo stesso giorno di maturazione di questa riflessione presiedeva la messa il nostro vescovo. Era il giorno della festa della Conversione di S. Paolo, e ricordando il temperamento dell’apostolo, diceva di essere incendiari, e non pompieri: troppo spesso, infatti, si vedono cristiani sfiduciati, scoraggiati, che gettano acqua anziché infuocare, come invece fa l’Apostolo delle Genti. E, sulla stessa linea, S. Giovanni Crisostomo: “Allo stesso modo che il fuoco appiccandosi a materiali diversi si rafforza ancor di più […], così la parola di Paolo guadagnava alla propria causa tutti coloro con cui entrava in relazione, e coloro che gli facevano guerra, catturati dai suoi discorsi, diventavano un alimento per questo fuoco spirituale” (Panegirici su S.Paolo, 7,11).

Allora, rinfrancato in questo percorso, ne sono convinto: davvero è necessario che gli invitati al banchetto siano affamati ed assetati di quella sete e fame che solo Cristo sa sfamare e dissetare. Con questo spirito noi seminaristi ci auguriamo che ci sia data la grazia di uscire dagli esercizi: uno spirito infuocato ed infuocante!

Francesco Ronchi, I Teologia